Occhi più giovani: la prima blefaroplastica

A onor del vero, il primo a suggerire un prototipo di blefaroplastica, cioè l’intervento sulle palpebre fu l’enciclopedista romano Aulo Cornelio Celso ma, come l’antesignana arte della chirurgia ricostruttiva, anche questa procedura riguardava il modellamento di palpebre mutilate (in genere quale punizione di un torto) o talmente cadenti da impedire la vista.

Il chirurgo americano Charles Conrad Miller (1880-1950), in epoca moderna ratificò una procedura chirurgica per la rimozione delle “pieghe cutanee delle palpebre a forma di borse”, pratica che adottò dal 1906 in poi. Il chiaro obiettivo meramente estetico fece di Miller il padre della blefaroplastica e della ritidectomia (lifting del viso) estetica per il ringiovanimento del viso.

La carriera di chirurgo estetico però non accompagnò Miller per il resto dei suoi giorni, poiché, vessato dai pazienti e dalle loro famiglie che pretendevano troppo in termini estetici, preferì tornare alla professione di chirurgo generale, curando le malattie piuttosto che assecondando la vanità.

Rughe: Storia della chirurgia plastica

La storia della chirurgia estetica nel ‘900. Il ringiovanimento del viso e le rughe

Abbiamo visto come la chirurgia estetica degli albori prenda i natali dalla chirurgia ricostruttiva e funzionale, con la rinoplastica e il modellamento del naso sifilitico come intervento-capofila.

Dopo ciò, l’attenzione al corpo e ai suoi difetti estetici ha nutrito di nuova linfa la nascente branca chirurgica che si è dedicata alla sperimentazione di interventi che cancellassero dal soggetto quei tratti che la mis-cultura nazista identificava come ebrei: le fattezze molli e adipose o il naso aquilino.

Nel corso del ‘900, il punto focale della chirurgia estetica diviene l’invecchiamento del viso, in particolare lo studio di una serie di tecniche chirurgiche che consentano di eliminare le rughe e i rilassamenti. Pare dunque che tutta la carambola di interventi di lifting facciali, tuttora in piena evoluzione e successo, abbia inizio nel 1901, ad opera di uno storico culturale tedesco, il chirurgo Eugen Holländer (1867-1932). Questi eseguì la prima ritidectomia, nome tecnico del più noto anglosassone lifting su una nobile donna polacca.

Fu la paziente stessa a suggerire la tecnica chirurgica, supportata da alcuni disegni che illustravano quanto e come la pelle del viso dovesse venire eliminata nella zona davanti all’orecchio. In questo modo si sarebbe tesa la pelle delle guance, eliminando il solco naso-labiale e stirando le rughe agli angoli della bocca.

Inizialmente Holländer non voleva seguire i suggerimenti, ma fu persuaso dalla donna a cambiare parere; rimosse allora piccole quantità di pelle lungo la linea dei capelli e dietro le orecchie, effettuando inoltre nella parte superiore del viso alcuni cambiamenti minori che resero felice la sua paziente. Nel 1906 anche il chirurgo tedesco Erich Lexer (1867-1937) praticò un intervento simile su un’attrice: durante la notte, la pelle del viso veniva immobilizzata applicando un nastro sulla fronte e tirandolo forte con strisce di gomma sulla cima del cranio. Dopo un certo periodo di tempo, il chirurgo rimosse la pelle in eccesso seguendo le pliche cutanee lungo l’attaccatura dei capelli fino a dietro le orecchie. Lexter arrivò a definire l’esito del lifting un vero successo.

 

Storia: Il ringiovanimento del viso

La storia della chirurgia estetica nel ‘900.

L’obiettivo della chirurgia diventano le rughe. Abbiamo visto come la chirurgia estetica degli albori prenda i natali dalla chirurgia ricostruttiva e funzionale, con la rinoplastica e il modellamento del naso sifilitico come intervento-capofila.

Dopo ciò, l’attenzione al corpo e ai suoi difetti estetici ha nutrito di nuova linfa la nascente branca chirurgica che si è dedicata alla sperimentazione di interventi che cancellassero dal soggetto quei tratti che la mis-cultura nazista identificava come ebrei: le fattezze molli e adipose o il naso aquilino.

Nel corso del ‘900, il punto focale della chirurgia estetica diviene l’invecchiamento del viso, in particolare lo studio di una serie di tecniche chirurgiche che consentano di eliminare le rughe e i rilassamenti. Pare dunque che tutta la carambola di interventi di lifting facciali, tuttora in piena evoluzione e successo, abbia inizio nel 1901, ad opera di uno storico culturale tedesco, il chirurgo Eugen Holländer (1867-1932). Questi eseguì la prima ritidectomia, nome tecnico del più noto anglosassone lifting su una nobile donna polacca.

Fu la paziente stessa a suggerire la tecnica chirurgica, supportata da alcuni disegni che illustravano quanto e come la pelle del viso dovesse venire eliminata nella zona davanti all’orecchio. In questo modo si sarebbe tesa la pelle delle guance, eliminando il solco naso-labiale e stirando le rughe agli angoli della bocca.

Inizialmente Holländer non voleva seguire i suggerimenti, ma fu persuaso dalla donna a cambiare parere; rimosse allora piccole quantità di pelle lungo la linea dei capelli e dietro le orecchie, effettuando inoltre nella parte superiore del viso alcuni cambiamenti minori che resero felice la sua paziente. Nel 1906 anche il chirurgo tedesco Erich Lexer (1867-1937) praticò un intervento simile su un’attrice: durante la notte, la pelle del viso veniva immobilizzata applicando un nastro sulla fronte e tirandolo forte con strisce di gomma sulla cima del cranio. Dopo un certo periodo di tempo, il chirurgo rimosse la pelle in eccesso seguendo le pliche cutanee lungo l’attaccatura dei capelli fino a dietro le orecchie. Lexter arrivò a definire l’esito del lifting un vero successo.

Storia: La prima addominoplastica

La chirurgia estetica dell’obesità, una storia vecchia cent’anni

prima_addominoplastica_KellyRimuovere il grasso in eccesso dall’addome con l’asportazione di una parte di pelle e adipe è una procedura che oggi è largamente praticata secondo diverse tecniche e viene denominata addominoplastica. Ma anche se è ai tempi nostri che l’ideale del bello femmineo (ma anche maschile) vuole una figura snella con l’addome piatto, l’obesità è da sempre stata considerata una cosa da correggere.

Il primo intervento di questo genere si svolse il 15 maggio del 1899 ad opera di Howard Atwood Kelly (1858 1943) di Baltimora. Secondo quanto riporta il chirurgo, la paziente era una donna trentaduenne di 130 kg e le venne rimossa una porzione di addome del peso di 6,7 kg, lunga 90 cm, larga 31 e spessa 7.

Da notare che la stessa donna tre anni prima si era sottoposta ad una procedura simile per ridurre il seno, dal quale J.W. Chambers, un altro chirurgo di Baltimora, aveva eliminato 11 kg di massa.

La forma della bellezza: no al grasso

Abbiamo tutti ben vivi nella mente i celebri dipinti botticelliani, con forme femminine molto floride, in carne, fai fianchi morbidi e dalle gambe ben solidamente tornite. Eppure, questo ideale di bellezza classico già agli inizi del XIX secolo si andava perdendo, a favore di figure più asciutte. È in questo periodo che fanno la loro comparsa le prime richieste di riduzione del seno e la moda impone corsetti molto succinti e contenitivi.

Anche l’aura del pensiero razziale nazista incentiva questo modello, identificando nella donna tarchiata e abbondante la forma tipicamente ebraica. Addirittura, si legge nel taccuino dell’antropologo tedesco Hugo Obermaier (1877-1946) che nel 1908 rinvenne la famosa statuetta primitiva nota come “Venere di Willendorf”: “una figura schematicamente degenerata, che rappresenta una scuola (artistica) esemplare e superiore, simile a quella di Tanagra. Nessun volto, solo grasso e femminilità, prosperità, fertilità, come nelle attuali ebree pigre e corrotte”.

Commenti come questi, supportati da “studi” antropologici di sedicenti scienziati, fecero crescere fobie nei confronti delle forme “primitive” ed “ebree” delle donne grasse. L’eugenista americano Albert Wiggam (1871-1957) si lamentava del fatto che gli Stati Uniti fossero invasi da donne brutte, “basse, dai fianchi larghi, con gambe robuste, piedi grandi, e volti privi di espressione e di bellezza”, aggiungendo che “le persone belle sono di solito moralmente migliori di quelle brutte”.

L’equivalenza bello e buono non è certo una novità nel panorama culturale, visto che già il mondo greco classico era mosso, nelle arti e nella filosofia, da questo modo di pensare. La novità che comincia a profilarsi sta dunque nelle possibilità che la scienza, unitamente alla chirurgia, possono offrire concretamente: oggi l’uomo può davvero fare qualcosa per cambiare il suo aspetto, non solo per eliminare un difetto, ma per apparire migliore. In tutte le accezioni del termine.

Storia: Johann Friedrich Dieffenbach

Johann Friedrich Dieffenbach padre berlinese della chirurgia estetica moderna. A ricorrere al chirurgo, abbiamo visto, era soprattutto chi desiderava ricostruire una parte del proprio corpo o viso deturpata da eventi tragici o infamanti. La grande forza dell’opinione pubblica spinse nel tempo i pazienti a sperimentare tecniche improvvisate, malsane, rocambolesche e assai dolorose pur di non essere additati a causa del riconoscimento pubblico di malattie come la sifilide. Esemplare è la frase del chirurgo berlinese Johann Friedrich Dieffenbach (1794-1847) che nel 1834 scrisse che “… un uomo senza naso (suscita) orrore e disgusto e la gente tende a giudicare la sua deformità come una giusta punizione per i suoi peccati. È strana questa distinzione delle malattie, e ancor più delle loro conseguenze, in riprovevoli e irreprensibili… Come se tutta la gente con il naso fosse senza colpa! Nessuno si chiede mai se la perdita del naso sia dovuta alla caduta di una trave, o se sia avvenuta a causa della scrofola o della sifilide”.

 

La ricostruzione del naso: un intervento alla…psiche

Johann Friedrich Dieffenbach fu un personaggio centrale della chirurgia facciale del XIX secolo, tanto da essere riconosciuto come uno dei padri fondatori della moderna chirurgia estetica e ricostruttiva.

L’attenzione alla ricostruzione del naso sifilitico lo portò a sperimentare la tecnica di von Klein, con l’inserimento di un dorso d’oro, ma la sua narrazione riporta la storia di un fallimento, terminata con la rimozione della inusuale protesi.

Gli studi e gli esperimenti di Dieffenbach vertono sui diversi metodi per ricostruire in particolare parti del viso, in modo da rendere più umano l’aspetto di pazienti fortemente mutilati.

Non previde di rimuovere ogni traccia della malattia o della cura, perché sarebbero comunque rimaste cicatrici visibili a mettere in guardia le persone sane dall’involontario contatto con portatori di malattie veneree. Ma almeno isolamento e sofferenza estrema dei sifilitici si sarebbero ridotti.

Come la quasi totalità dei chirurghi dell’epoca e precedenti, anche Dieffenbach non riporta l’impatto psicologico della chirurgia ricostruttiva sui pazienti, ma nei suoi scritti riporta un particolare evento, l’incontro con una diciottenne polacca il cui volto era il più orribile che avesse mai visto: “Tremavo, perché mi stava innanzi la testa di un morto, talmente distrutta che non ne avevo mai vista alcuna su un corpo vivente”; il volto era stato spazzato via dalla scrofola. Egli iniziò la ricostruzione del naso usando l’innesto di un lembo tratto dalla parte superiore del braccio, secondo le pratiche del Tagliacozzi. Nei sei mesi successivi seguitò ad eseguire correzioni, fino a modellare un dopo il riuscito trapianto, effettuò per sei mesi dei piccoli trattamenti correttivi per modellare il naso. Il successo dell’intervento diede una nuova vita a quest’infelicissima fanciulla, che poté coraggiosamente tornare tra la gente, visitare il teatro con fiori tra i capelli, e lasciare Berlino con il cuore in festa.

Motivo della grande popolarità del chirurgo non fu solo legata alle evidenti capacità tecniche, ma alle procedure impiegate. Interventi simili erano riportati anche da altri, ma gli esiti erano praticamente sempre fatali a causa delle infezioni. Perciò, anche se tecnicamente l’intervento risultava ben compiuto, il paziente moriva di setticemia, come nel caso riportato da Jacques Lisfranc nel 1828, che impiegò il lembo cutaneo frontale per ricostruire un naso distrutto. L’esito dell’intervento portò alla morte del paziente dopo 13 giorni.

 

La svolta della chirurgia estetica

La maggiore particolarità di questi casi riportati dalla storia è che avvennero prima dell’avvento dell’anestesia e degli antisettici. Sono inimmaginabili le condizioni in cui si svolsero, sia a livello tecnico, con strumenti rudimentali, che igienico, esponendo il paziente a dolori atroci e rischi estremi. Eppure non mancò mai chi vi si sottopose, fatto notevole, indice dell’insopportabile peso dato da un difetto così stimmatizzante in pieno viso.

Perciò la possibilità di fare chirurgia senza dolore cambiò radicalmente la natura stessa degli interventi. Da correttivi e ricostruttivi progressivamente diventano qualcosa dettato dalla vanità, più che dalla necessità, aprendo le porte ad una chirurgia estetica dai criteri più simili a quelli di oggi.

Il cambiamento di rotta delle tecniche ricostruttive impiego oltre quarant’anni e il primo passo, dopo l’era della ricostruzione anatomica, fu verso metodiche richieste per ringiovanire, poi per nascondere l’origine etnica e infine per cambiare il sesso.

Storia: La rinoplastica

La rinoplastica: il primo vero intervento di chirurgia estetica documentato. Tracce storiche di interventi di chirurgia ricostruttiva del naso compaiono nel mondo dell’Egitto antico e plurime volte lungo la storia dell’India, ma nel mondo occidentale queste pratiche non trovano spazio né credito fino agli scritti di Heinrich von Pfalzpaint (prima metà del ‘400), cavaliere dell’ordine teutonico che eredita i segreti della chirurgia dal padre. Tra i suoi appunti compare la descrizione della ricostruzione nasale con un lembo cutaneo mantenuto vitale perché ancora collegato al braccio. Questa pratica ricorda da vicino la tradizione indiana, ma von Pfalzpaint riporta solamente di averla imparata da uno straniero.

Prima che tale metodo venga davvero codificato secondo una prassi scientifica bisognerà comunque attendere il Rinascimento italiano, con la tradizione chirurgica dei Branca di Catania (XV sec.) e il bolognese Tagliacozzi (1545-1599).

 

La rinoplastica dei Branca da Catania

La famiglia siciliana dei Branca elaborò due procedure per la ricostruzione del naso. Mentre il padre impiegava la cute prelevata dalla guancia per ricreare il naso, Antonio Branca, il figlio, stabilì che il lembo andava prelevato dal braccio. La procedura di quest’ultimo richiedeva che il lembo, ancora attaccato al braccio, venisse unito al moncone corroso del naso per almeno 20 giorni. Questa tecnica, pur essendo più laboriosa e quasi atroce per il paziente, aveva il vantaggio di non lasciare cicatrici ulteriori sul viso.

 

Il Tagliacozzi e l’importanza psicologica della chirurgia plastica

Gaspare Tagliacozzi poi, celebre professore universitario, ben comprese l’importanza psicologica e sociologica della chirurgia plastica ed estetica, mettendo in stretta relazione l’immagine con il benessere psichico (e quindi il brutto come infelicità): “Noi ripristiniamo, ripariamo e diamo l’integrità a quelle parti del viso che la natura ci ha dato e il destino ci ha tolto, non tanto per la gioia della vista, ma per rasserenare gli spiriti ed aiutare la mente degli afflitti”.

Il Tagliacozzi arriva ad affermare che una persona che porta su di sé la stimmate di un naso mancante o deformato (ben al di là dei problemi funzionali), può addirittura ammalarsi nel fisico ed essere contagioso.

 

Il primo testo moderno di rinoplastica

Pietra miliare della chirurgia estetica è il suo testo “De curtorum chirurgia per insitionem” (1597), in cui la ricostruzione del naso amputato per ferite o sifilide è documentata con descrizioni e accurate illustrazioni e addirittura commenti di confronto tra diverse procedure. La tecnica ricostruttiva del Tagliacozzi è stata utilizzata fino a tempi recenti ed è tutt’ora nota con il nome di “lembo italiano”. Come il giovane Branca, scelse di usare la pelle del braccio: effettuava due incisioni parallele sul bicipite, allentava la pelle tra questi due tagli e inseriva una benda medicata sotto la pelle. Lasciava tutto intatto per quattro giorni, poi medicava giornalmente la ferita in modo da favorire la formazione della cicatrice sotto la pelle allentata. Dopo quattordici giorni, tagliava la pelle incisa a un’estremità; dopo altre due settimane raschiava il moncone nasale e innestava il lembo ancora attaccato sul naso, tenendo il braccio in posizione con una forte imbracatura. Dopo venti giorni tagliava il lembo dal braccio e dopo altre due settimane cominciava a modellare il naso congiungendolo al labbro superiore. Sei fasi (come minimo) e più di un mese dopo era presente un naso rudimentale. Al lettore moderno non sfugge sicuramente il grande sottinteso di questa avveniristica pratica chirurgica, e cioè il grande dolore e l’altissimo rischio d’infezione a cui il paziente, senza anestesia né disinfezione alcuna, era esposto, che portava nella maggioranza dei casi ad esiti fatali.

 

La rinoplastica orientale e l’oscurantismo europeo

Non bisogna dimenticare che ogni più piccolo progresso in campo chirurgico ricostruttivo in questi anni è rappresentato più da casi isolati di pensatori liberi e innovatori che agirono in modo indipendente in un contesto, quello della cultura ecclesiastica, che osteggiava fortemente queste pratiche. Perciò non deve sorprendere se la tecnica messa a punto dai Branca e il rigore scientifico del Tagliacozzi decaddero completamente. Infatti, il chirurgo, ricostruendo il naso a individui sifilitici, interveniva su quella che era vista come una giusta punizione per un comportamento immorale, e l’uomo non può permettersi l’intromissione negli affari di giustizia divina.

Con il dominio coloniale dell’Impero Britannico in India, nel 1794 apparve un articolo pubblicato con le iniziali B.L., verosimilmente uno pseudonimo del famoso chirurgo militare britannico Cully Lyon Lucas.

Il giornale londinese “Gentlemen’s Magazine” riportava dunque la descrizione dettagliata di un innesto di pelle collegato alla fronte a sostituzione di un naso amputato, con tanto di ritratto del paziente, un persiano conducente di tori di nome Cowasjee.

Costui, un anno dopo la penosa amputazione per mano di un ribelle al Regno Unito, cui Cowasjee  prestava servizio, fu curato da un indiano membro della casta “dei mattonai”. L’intervento venne effettuato riproducendo sulla fronte di Cowasjee le tracce del naso da un modello in cera e allentando la pelle della fronte. Lasciando un lembo di collegamento, il mattonaio scollò la pelle dalla fronte e la attorcigliò posizionandola verso il basso, a formare il naso, con una tecnica ricostruttiva nota poi con il nome di “lembo cutaneo a pedicello”. Dopo venticinque giorni anche il lembo di collegamento alla fronte venne tagliato, lasciando una vasta cicatrice sulla fronte. A differenza della tecnica del Tagliacozzi, che prelevava la pelle dal braccio immobilizzandolo a contatto con il naso, la tecnica indiana lasciava più libertà di movimento al paziente, che però doveva sopportare la ferita alla fronte.

In ogni caso, secondo quanto riportato dalla stampa britannica nel 1794, furono le pratiche “orientali” e “barbariche” di amputazione del naso a dare impeto allo sviluppo della rinoplastica di tipo ricostruttivo nella medicina tradizionale indiana, a differenza delle antiche cure per i nasi sifilitici dell’Europa occidentale, cadute ormai nell’oblio. Seguendo il modello britannico, che conosceva bene, il chirurgo tedesco Eduard Zeis (1807-1868) scrisse, nel 1838, che la rinoplastica ricostruttiva “deve le sue origini all’abitudine, praticata fin dall’antichità e fino ai giorni nostri, di punire ladri, disertori e specialmente adulteri tagliando loro naso e orecchie. Non meraviglia quindi che l’arte di ricostruire i nasi si sia sviluppata molto più tardi in Europa, dove questa orribile consuetudine non esisteva…”. Secondo questo testo fu dunque la barbarie orientale a condurre allo sviluppo di procedure plastiche. In realtà la grande spinta propulsiva al progresso della chirurgia ricostruttiva fu dato proprio dalle stigmate ignominiose della sifilide, tanto più osteggiata perché indice di una vita sessuale non certo ineccepibile.

 

Il naso d’oro della principessa

Una grande spinta verso il progredire delle tecniche chirurgiche ricostruttive ed estetiche, quindi, da sempre è stata non tanto (non solo!) il desiderio di essere più belli, quanto piuttosto la grande volontà di cancellare dal proprio corpo alcuni segni, specchio di sofferenze psicologiche profonde, siano esse ricordi di guerra, di malattie o, peggio, di un trascorso di dubbia morale. È questo il caso dei molteplici nasi sifilitici che hanno dato vita a procedure di rinoplastica anche alquanto fantasiose, al limite del romanzo. Ed un romanzo infatti sembra la storia di una principessa di inizio ‘800 che, neanche ventenne, si rivolse al dottor von Klein, chirurgo di Heidelberg, suggerendo essa stessa come poteva essere corretto il suo naso. La ragazza, riporta il giornale medico dove von Klein narrò la vicenda, aveva il dorso del naso quasi assente, difetto che in linguaggio tecnico viene definito “a sella”, probabilmente una scomoda eredità dovuta appunto alla sifilide contratta dai genitori. Fu, dicevamo, la principessa stessa a proporre il rivoluzionario intervento: inserire in luogo del dorso una protesi d’oro. Ma, concia delle cicatrici che necessariamente si sarebbero prodotte, la ragazza suggerì di testare l’innovativo intervento su un volontario dell’ospizio dei poveri. Il dottor von Klein quindi accettò e recuperò il malcapitato con la ricompensa di un tallero e la promessa di poter tenere il dorso d’oro dopo l’intervento. Inaspettatamente, la ricostruzione del naso fu molto soddisfacente, senza che si sviluppassero infezioni (il cui rischio era decisamente elevato) e con una cicatrice minima. Decisa dal successo dell’esperimento, la principessa vi si sarebbe sottoposta, sennonché la sua volontà venne meno quando già era stata legata alla sedia, scappandosene via. E se si pensa all’assenza assoluta di qualunque tipo di anestesia locale o generale, ben si immagina il gesto…

Sebbene la sua cliente alla fine non si lasciasse operare, Von Klein rivela perchè ella si sentisse brutta e desiderasse un intervento chirurgico: ma una simile operazione, egli notò, dovrebbe essere pensata per persone che hanno perso il proprio naso a causa delle pericolose conseguenze della scrofola (o tubercolosi), del lupus o della sifilide.

Questo mirabolante intervento venne replicato poi senza successo da Johann Friedrich Dieffenbach (1794-1847), chirurgo berlinese considerato tra i padri della chirurgia estetica moderna, ma la chirurgia ricostruttiva ufficiale seguì piuttosto il filone introdotto dal Tagliacozzi e la sua tecnica del lembo cutaneo collegato al braccio, metodica peraltro adottata in casi sporadici addirittura fino ad un paio di decine d’anni fa.

Storia: Dal peeling del Faraone alla plastica del Rinascimento

La storia della medicina cammina di pari passo con la storia della bellezza. Non esiste infatti un periodo storico in cui l’uomo non abbia cercato tecniche e strategie per apparire più bello, dalle pratiche cosmetiche, a quella che oggi definiremmo body art, tatuaggi, scarificazioni, cicatrici estetiche, piercing, fino ad arrivare a pratiche che sono le vere antesignane della chirurgia estetica.

La chirurgia estetica nell’antico Egitto

Già nell’antico Egitto, in un periodo stimato come 3000 anni a.C., in un papiro è descritta una pratica che ricorda verosimilmente un peeling. In quest’area geografica si sviluppò un vero culto ed una correlata cultura moderna del bello, raggiunto anche con mezzi chirurgici. La profonda conoscenza anatomica del corpo umano, data probabilmente dall’arte dell’imbalsamazione, ha spinto la pratica chirurgica a tal punto da descrivere minuziosamente come deve essere allestita una sutura e come si medicano ferite in modo da non produrre cicatrici sgradevoli alla vista (Papiro Chirurgico, circa 1600 a.C., copia di un trattato precedente risalente al 3000 a.C.). Addirittura in questi documenti viene descritta la cura delle fratture del naso con il relativo inserimento nelle narici di due tamponi di lino intrisi di grasso.

La chirurgia estetica nell’antico Oriente

Anche in Oriente si sviluppa in parallelo l’arte della bellezza chirurgica, con geniali testimonianze cinesi di ricostruzioni estetiche di orecchi e labbra (circa 600 a.C.). I medici cinesi Bian Que (V secolo a.C.) e Hua Tuo (150- 208 circa d.C.) scrissero testi in cui descrivevano i metodi di cura di orecchie e occhi dei pazienti. In Cina, il divieto tradizionale di incidere il corpo ha limitato tutti i tipi di intervento chirurgico fino a tempi abbastanza recenti: è solo nel primo periodo delle dinastie T’ang e Gin a metà del X secolo a.C. che i testi medici cominciarono a documentare la chirurgia ricostruttiva del labbro leporino.

In India, invece, la rinoplastica veniva realizzata per ricostruire esternamente la piramide nasale amputata come punizione per adulterio, e sorprendono testimonianze così antiche (2100 a.C.) di tecniche che vennero usate fino a tempi recenti (ricostruzione con lembi cutanei prelevati dalla fronte o dalla guancia).

 

Gli arabi e la chirurgia estetica degli occhi

Dagli arabi provengono poi i primi segni di un rinnovato interesse nei confronti dell’estetica facciale: Albucacis, nato nei pressi di Cordoba, in Andalusia, descrive, verso la fine del primo millennio, un intervento di blefaroplastica eseguito con la cauterizzazione. E sono degli stessi anni testimonianze che tramandano dell’usanza di tatuare la cornea degli schiavi per renderli più interessanti.

 

La chirurgia estetica nel mondo classico

Sorprende poi la descrizione di Paolo di Egina, un medico alessandrino del VII sec. a.C., che descrive come eliminare la ginecomastia (la presenza di un seno sviluppato sugli uomini), tenendo conto anche del disagio sociale che questo difetto procura.

Ma è con il padre della medicina cosiddetta moderna, il medico greco Ippocrate (V sec. a.C.), che le tecniche e la filosofia medica restano insuperate per secoli, e il cui pensiero etico è tutt’oggi alla base della professione sanitaria.

Nel mondo romano spicca, nel I sec. a.C., l’enciclopedista Aulo Cornelio Celso, che sottolinea l’importanza di una bella sutura e descrive tecniche per la bellezza del viso.

Plinio il Vecchio (23/24 d.C. – 79 d.C.) invece dà i natali ad una tecnica che ricorda molto la liposuzione, sperimentata “eroicamente” per trattare l’obesità sul figlio del console L. Apronio, poi ripresentata nella storia ad opera di un chirurgo del 1190 che praticò una vera adipectomia all’addome del conte Conte Dedo Von Rocblitz Groitzseh.

Il tramonto della chirurgia estetica nel Medioevo

Ma la chirurgia incontrò nei secoli l’insormontabile scoglio dell’oscurantismo religioso e della chiusura culturale, che vedeva nella pratica chirurgica un qualcosa di negletto da aborrire con ogni forza. La credenza diffusa era che difetti, disagi e malattie fisiche altro non fossero che manifestazioni di un male mentale o dell’anima o, peggio, una meritata punizione divina. Anche le cure chirurgiche dettate dalla necessità, come l’incisione di un ascesso o la rimozione di un dente erano relegate a semplici “manovali”, non certo medici, come i barbieri. Anche le mutilanti e invalidanti ferite di guerra quindi per lungo tempo non vennero trattate e la chirurgia divenne la sorella povera e dimenticata della nobile medicina.

 

Il Rinascimento e la rinascita della chirurgia plastica

Solo con il Rinascimento l’attenzione al bello pervade anche la sfera medica, tornando a far parlare di una sorta di chirurgia estetica.

Il “pretesto” per tornare a parlare di ricostruzione plastica di alcuni organi fu dato dalla diffusione della sifilide, malattia venerea epidemica importata dal Nuovo Mondo, attorno al XVI secolo.

La sifilide lasciava danni molto deturpanti e immediatamente riconoscibili sul volto dei malati, in particolare al naso, la cui struttura cedeva letteralmente. La nuova chirurgia plastica estetica dunque ebbe il compito di ricostruire esteticamente una piramide nasale che permettesse al malato di presentarsi di nuovo in società. Un antico storico di chirurgia estetica, il tedesco Otto Hildebrand (1858- 1927), anch’egli chirurgo ricostruttivo, notò la relazione tra la nuova estetica del Rinascimento, la diffusione della sifilide (che causò menomazioni e deformità) e la rinascita della chirurgia plastica.

Storia: La svolta della chirurgia: gli antisettici

Prima dell’avvento degli antisettici, la chirurgia restava relegata nell’ambito della necessità. Vi si ricorreva solo quando ormai ogni altra terapia sarebbe stata inutile e il gran numero di decessi dopo l’intervento abbassava decisamente il tasso di successo delle pratiche chirurgiche. Con lo sviluppo delle pratiche antisettiche, la chirurgia vede la più grande svolta di tutti i tempi e i rischi connessi al decorso postoperatorio calano decisamente, così come i casi d’infezione. Il merito è di Joseph Lister, che nel 1867 divulgò l’acido fenico come antisettico, pratica in uso anche fino agli ultimi anni del XIX secolo.

Il ruolo dei chirurghi estetici per la diffusione degli antisettici fu ingente, favorendo la riduzione del timore per la chirurgia. Il 6 novembre 1877, durante un discorso presentato all’Associazione dei medici newyorkesi, Robert F. Weir (1838-1927), figura-chiave per lo sviluppo della chirurgia estetica americana, esortò a effettuare un’accurata disinfezione di strumentazione, sala operatoria, chirurgo e paziente, affinché quest’ultimo non fosse esposto a rischi inutili.

Storia della chirurgia plastica: anestetici

L’intervento senza dolore: l’anestesia

Intervento chirurgico in passato per lo più era grottescamente sinonimo di dolori atroci e, nella maggior parte dei casi, il tragico epilogo era la morte. Le cause della grande mortalità da intervento chirurgico erano legate, oltre all’assenza completa della profilassi antisettica (neppure il semplice lavaggio delle mani…), alla mancanza della protezione, per l’organismo, dell’aggressione chirurgica stessa, come sanguinamento, dolore, paura.

Gli analgesici impiegati nell’antichità (sporadicamente e con scarsa efficaci) erano frutto delle conoscenze arabe di fitoterapia, come l’hascisc, la mandragora e l’oppio.

Solo nel 1846 William Thomas Green Morton (1819-1868), un dentista di Boston, dimostrò l’efficacia anestetica del protossido di azoto con alcuni esperimenti sugli animali e su se stesso. Già precedentemente, nel 1796, Priestley e Humphry Davy avevano scoperto ciò, e dopo 20 anni le ricerche continuarono ad opera di Faraday, che impiegò come anestetico l’etere di etilico. Parallelamente il chirurgo berlinese  Johann Friedrich Dieffenbach (1794-1847) sembra destinato a voltare la pagina della storia medica quando per primo sperimenta l’etere in Europa affermando: “Il sogno è divenuto realtà: oggi è possibile eseguire operazioni senza dolore” , ma bisognò attendere Morton per l’impiego in chirurgia di queste sostanze.

Successivamente la cocaina venne introdotta come anestetico oculare e spinale e, nel corso dell’ultimo ventennio dell’800 si svilupparono tecniche anestesiologiche, come l’epidurale e la subaracnoidea, che ridussero l’alto rischio di morte legato all’anestesia generale.

A tutt’oggi l’anestesia locale, epidurale o locoregionale rappresentano la via di preferenza della chirurgia estetica futuribile. Il fatto di affrontare l’intervento chirurgico senza dolore è uno dei fattori principali che determinano il successo di un intervento di chirurgia estetica e la possibilità di localizzare l’anestesia al solo distretto operato fa sì che il paziente possa rimanere collaborante nella pratica chirurgica, evitando sensazioni sgradevoli al risveglio legate all’attività inconscia della mente che fantastica in modo morboso sulla ferita durante l’intervento.