Storia: La rinoplastica

La rinoplastica: il primo vero intervento di chirurgia estetica documentato. Tracce storiche di interventi di chirurgia ricostruttiva del naso compaiono nel mondo dell’Egitto antico e plurime volte lungo la storia dell’India, ma nel mondo occidentale queste pratiche non trovano spazio né credito fino agli scritti di Heinrich von Pfalzpaint (prima metà del ‘400), cavaliere dell’ordine teutonico che eredita i segreti della chirurgia dal padre. Tra i suoi appunti compare la descrizione della ricostruzione nasale con un lembo cutaneo mantenuto vitale perché ancora collegato al braccio. Questa pratica ricorda da vicino la tradizione indiana, ma von Pfalzpaint riporta solamente di averla imparata da uno straniero.

Prima che tale metodo venga davvero codificato secondo una prassi scientifica bisognerà comunque attendere il Rinascimento italiano, con la tradizione chirurgica dei Branca di Catania (XV sec.) e il bolognese Tagliacozzi (1545-1599).

 

La rinoplastica dei Branca da Catania

La famiglia siciliana dei Branca elaborò due procedure per la ricostruzione del naso. Mentre il padre impiegava la cute prelevata dalla guancia per ricreare il naso, Antonio Branca, il figlio, stabilì che il lembo andava prelevato dal braccio. La procedura di quest’ultimo richiedeva che il lembo, ancora attaccato al braccio, venisse unito al moncone corroso del naso per almeno 20 giorni. Questa tecnica, pur essendo più laboriosa e quasi atroce per il paziente, aveva il vantaggio di non lasciare cicatrici ulteriori sul viso.

 

Il Tagliacozzi e l’importanza psicologica della chirurgia plastica

Gaspare Tagliacozzi poi, celebre professore universitario, ben comprese l’importanza psicologica e sociologica della chirurgia plastica ed estetica, mettendo in stretta relazione l’immagine con il benessere psichico (e quindi il brutto come infelicità): “Noi ripristiniamo, ripariamo e diamo l’integrità a quelle parti del viso che la natura ci ha dato e il destino ci ha tolto, non tanto per la gioia della vista, ma per rasserenare gli spiriti ed aiutare la mente degli afflitti”.

Il Tagliacozzi arriva ad affermare che una persona che porta su di sé la stimmate di un naso mancante o deformato (ben al di là dei problemi funzionali), può addirittura ammalarsi nel fisico ed essere contagioso.

 

Il primo testo moderno di rinoplastica

Pietra miliare della chirurgia estetica è il suo testo “De curtorum chirurgia per insitionem” (1597), in cui la ricostruzione del naso amputato per ferite o sifilide è documentata con descrizioni e accurate illustrazioni e addirittura commenti di confronto tra diverse procedure. La tecnica ricostruttiva del Tagliacozzi è stata utilizzata fino a tempi recenti ed è tutt’ora nota con il nome di “lembo italiano”. Come il giovane Branca, scelse di usare la pelle del braccio: effettuava due incisioni parallele sul bicipite, allentava la pelle tra questi due tagli e inseriva una benda medicata sotto la pelle. Lasciava tutto intatto per quattro giorni, poi medicava giornalmente la ferita in modo da favorire la formazione della cicatrice sotto la pelle allentata. Dopo quattordici giorni, tagliava la pelle incisa a un’estremità; dopo altre due settimane raschiava il moncone nasale e innestava il lembo ancora attaccato sul naso, tenendo il braccio in posizione con una forte imbracatura. Dopo venti giorni tagliava il lembo dal braccio e dopo altre due settimane cominciava a modellare il naso congiungendolo al labbro superiore. Sei fasi (come minimo) e più di un mese dopo era presente un naso rudimentale. Al lettore moderno non sfugge sicuramente il grande sottinteso di questa avveniristica pratica chirurgica, e cioè il grande dolore e l’altissimo rischio d’infezione a cui il paziente, senza anestesia né disinfezione alcuna, era esposto, che portava nella maggioranza dei casi ad esiti fatali.

 

La rinoplastica orientale e l’oscurantismo europeo

Non bisogna dimenticare che ogni più piccolo progresso in campo chirurgico ricostruttivo in questi anni è rappresentato più da casi isolati di pensatori liberi e innovatori che agirono in modo indipendente in un contesto, quello della cultura ecclesiastica, che osteggiava fortemente queste pratiche. Perciò non deve sorprendere se la tecnica messa a punto dai Branca e il rigore scientifico del Tagliacozzi decaddero completamente. Infatti, il chirurgo, ricostruendo il naso a individui sifilitici, interveniva su quella che era vista come una giusta punizione per un comportamento immorale, e l’uomo non può permettersi l’intromissione negli affari di giustizia divina.

Con il dominio coloniale dell’Impero Britannico in India, nel 1794 apparve un articolo pubblicato con le iniziali B.L., verosimilmente uno pseudonimo del famoso chirurgo militare britannico Cully Lyon Lucas.

Il giornale londinese “Gentlemen’s Magazine” riportava dunque la descrizione dettagliata di un innesto di pelle collegato alla fronte a sostituzione di un naso amputato, con tanto di ritratto del paziente, un persiano conducente di tori di nome Cowasjee.

Costui, un anno dopo la penosa amputazione per mano di un ribelle al Regno Unito, cui Cowasjee  prestava servizio, fu curato da un indiano membro della casta “dei mattonai”. L’intervento venne effettuato riproducendo sulla fronte di Cowasjee le tracce del naso da un modello in cera e allentando la pelle della fronte. Lasciando un lembo di collegamento, il mattonaio scollò la pelle dalla fronte e la attorcigliò posizionandola verso il basso, a formare il naso, con una tecnica ricostruttiva nota poi con il nome di “lembo cutaneo a pedicello”. Dopo venticinque giorni anche il lembo di collegamento alla fronte venne tagliato, lasciando una vasta cicatrice sulla fronte. A differenza della tecnica del Tagliacozzi, che prelevava la pelle dal braccio immobilizzandolo a contatto con il naso, la tecnica indiana lasciava più libertà di movimento al paziente, che però doveva sopportare la ferita alla fronte.

In ogni caso, secondo quanto riportato dalla stampa britannica nel 1794, furono le pratiche “orientali” e “barbariche” di amputazione del naso a dare impeto allo sviluppo della rinoplastica di tipo ricostruttivo nella medicina tradizionale indiana, a differenza delle antiche cure per i nasi sifilitici dell’Europa occidentale, cadute ormai nell’oblio. Seguendo il modello britannico, che conosceva bene, il chirurgo tedesco Eduard Zeis (1807-1868) scrisse, nel 1838, che la rinoplastica ricostruttiva “deve le sue origini all’abitudine, praticata fin dall’antichità e fino ai giorni nostri, di punire ladri, disertori e specialmente adulteri tagliando loro naso e orecchie. Non meraviglia quindi che l’arte di ricostruire i nasi si sia sviluppata molto più tardi in Europa, dove questa orribile consuetudine non esisteva…”. Secondo questo testo fu dunque la barbarie orientale a condurre allo sviluppo di procedure plastiche. In realtà la grande spinta propulsiva al progresso della chirurgia ricostruttiva fu dato proprio dalle stigmate ignominiose della sifilide, tanto più osteggiata perché indice di una vita sessuale non certo ineccepibile.

 

Il naso d’oro della principessa

Una grande spinta verso il progredire delle tecniche chirurgiche ricostruttive ed estetiche, quindi, da sempre è stata non tanto (non solo!) il desiderio di essere più belli, quanto piuttosto la grande volontà di cancellare dal proprio corpo alcuni segni, specchio di sofferenze psicologiche profonde, siano esse ricordi di guerra, di malattie o, peggio, di un trascorso di dubbia morale. È questo il caso dei molteplici nasi sifilitici che hanno dato vita a procedure di rinoplastica anche alquanto fantasiose, al limite del romanzo. Ed un romanzo infatti sembra la storia di una principessa di inizio ‘800 che, neanche ventenne, si rivolse al dottor von Klein, chirurgo di Heidelberg, suggerendo essa stessa come poteva essere corretto il suo naso. La ragazza, riporta il giornale medico dove von Klein narrò la vicenda, aveva il dorso del naso quasi assente, difetto che in linguaggio tecnico viene definito “a sella”, probabilmente una scomoda eredità dovuta appunto alla sifilide contratta dai genitori. Fu, dicevamo, la principessa stessa a proporre il rivoluzionario intervento: inserire in luogo del dorso una protesi d’oro. Ma, concia delle cicatrici che necessariamente si sarebbero prodotte, la ragazza suggerì di testare l’innovativo intervento su un volontario dell’ospizio dei poveri. Il dottor von Klein quindi accettò e recuperò il malcapitato con la ricompensa di un tallero e la promessa di poter tenere il dorso d’oro dopo l’intervento. Inaspettatamente, la ricostruzione del naso fu molto soddisfacente, senza che si sviluppassero infezioni (il cui rischio era decisamente elevato) e con una cicatrice minima. Decisa dal successo dell’esperimento, la principessa vi si sarebbe sottoposta, sennonché la sua volontà venne meno quando già era stata legata alla sedia, scappandosene via. E se si pensa all’assenza assoluta di qualunque tipo di anestesia locale o generale, ben si immagina il gesto…

Sebbene la sua cliente alla fine non si lasciasse operare, Von Klein rivela perchè ella si sentisse brutta e desiderasse un intervento chirurgico: ma una simile operazione, egli notò, dovrebbe essere pensata per persone che hanno perso il proprio naso a causa delle pericolose conseguenze della scrofola (o tubercolosi), del lupus o della sifilide.

Questo mirabolante intervento venne replicato poi senza successo da Johann Friedrich Dieffenbach (1794-1847), chirurgo berlinese considerato tra i padri della chirurgia estetica moderna, ma la chirurgia ricostruttiva ufficiale seguì piuttosto il filone introdotto dal Tagliacozzi e la sua tecnica del lembo cutaneo collegato al braccio, metodica peraltro adottata in casi sporadici addirittura fino ad un paio di decine d’anni fa.